Tra informazione e incanto: le
fotografie di Gustavo Millozzi
Nel 1968 Renzo Chini, fotografo avanguardista e poliedrico
uomo di cultura, pubblica il volume Il
linguaggio fotografico, definito da Gillo Dorfles
un libro prezioso che “riuscirà a insegnare meglio e con più efficacia di
quanto non possano fare i più noti manuali scientifici e i più densi saggi
estetici e linguistici sull’argomento”[1]. Nella
soggettiva lettura dei caratteri linguistici delle diverse opere presenti nel
testo, e nella selezione dei maestri della storia della fotografia nei suoi
quasi centocinquant’anni, Chini sceglie di inserire
il fotografo Gustavo Millozzi con la sua proverbiale immagine intitolata Montenapoleone
(1961).
Millozzi ha già in quegli anni alle spalle un lungo cammino
di sperimentazioni e continuo rinnovamento per quanto riguarda la sua passione
fotografica, ma ciò che sorprende è la rigorosa descrizione di Chini della
fotografia succitata:
A parte la riquadratura troppo stretta
in alto a sinistra. L’organizzazione visiva dei rettangoli che costituiscono lo
scenario del racconto effigiato è molto robusta. Peccato che tale scenario sia
generico e non dica nulla di preciso rispetto all’ambiente suggerito dal titolo
dell’immagine.
Non ci sembra chiaro neppure il senso
da attribuire al racconto: se di “denuncia sociale” (l’operaio che guarda
severo la frequentatrice della più frivola via di Milano) oppure se di curiosità.
L’atteggiamento della donna sembra vergognoso per quanto perentorio quello
dell’uomo. Tuttavia l’immagine, così com’è, non dà modo di credere che fra i
due sia intercorso un qualsiasi “riconoscimento”: infatti è abbastanza chiaro
che la donna va per i fatti propri.
Si tratta di un bell’esempio di come le
fotografie possano “mentire” senza fare torto al vero. Ed è appunto questa
ambiguità a costituire il valore linguistico dell’immagine[2].
L’immagine così attentamente descritta, apparsa già a piena
pagina sulla rivista Ferrania
in un numero speciale dedicato alla fotografia italiana nel dicembre del 1961,
è certamente tra le più celebri eseguite dal fotografo. Forse merita di essere
rivalutata per la sua straordinaria composizione piuttosto che per l’atteggiamento
“vergognoso” della donna e quello “perentorio” dell’uomo. L’elegante incedere
della figura femminile si contrappone con la disinvoltura statuaria della
figura maschile. Entrambi i soggetti dell’immagine sono persi nei loro pensieri
privati che il fotografo restituisce al di là di una menzogna che non fa torto
al vero.
Se vogliamo capire meglio l’opera di Millozzi, che si
affaccia al mondo della fotografia, bisogna far riferimento all’articolo
apparso sulla rivista Fotografia a
firma di Giuseppe Turroni, critico cinematografico e
curatore del volume di riferimento per la comprensione della scena fotografica italiana alla fine degli
anni 50, Nuova fotografia italiana
(1959). Egli riferendosi al giovane Millozzi dichiara:
I giovani che si affacciano alla
ribalta fotografica degli ultimi anni (è inutile, sia detto per inciso, fare le
solite distinzioni tra dilettantismo e professionismo, perché le ultime leve
dei dilettanti sono agguerrite, hanno un buon gusto di piglio cosmopolita ed
insomma non si rifugiano nella proverbiale arcadia del bello retrodatato)
hanno, rispetto ai più anziani, la grande fortuna di aver trovato un terreno
già pronto, sul quale si sono da un pezzo sopite le annose discussioni del
bello, del funzionale, del necessario, e dove i risultati raggiunti sono per lo
meno attendibili sul piano della storicità artistica. … Gustavo Millozzi entra
a far parte con le carte in regola in questa tensione, si distingue per un
gusto limpido del ritratto senza complicazioni formalistiche. Ama la fotografia
senza sovrastrutture decorative di mera impronta tecnicistica[3].
Millozzi subito si distingue nel panorama
fotografico del tempo per uno stile personale che lo rende unico in ogni
successivo passaggio del suo fare. La notorietà e il consenso giunge a Venezia
con la partecipazione al Circolo Fotografico “La Gondola”. Qui conosce e
frequenta Paolo Monti, Gianni Berengo Gardin, Fulvio Roiter, Giuseppe
Bruno, Sergio del Pero e tanti altri fotografi con i quali condivide una
straordinaria passione. Come egli stesso dichiara, nel periodo del Circolo
Fotografico “La Gondola”, subisce ripetutamente l’influenza della fotografia
tedesca, francese e belga nonché la produzione dei maggiori autori della
fotografia straniera che arrivano con le loro immagini accattivanti nella città
lagunare attraverso le numerose mostre allestite da “La Gondola” sotto l’egida
di Romeo Martinez (il direttore della celebre rivista Camera). Una volta avviata la partecipazione attiva al Circolo,
egli si presenta con un discreto successo a diverse mostre e a concorsi
fotografici ottenendo l’onorificenza AFIAP. Nel 1961 si trasferisce da Venezia
a Padova e l’anno successivo promuove la costituzione del Fotoclub
Padova, un attivo Circolo Fotografico italiano che nel 1975 organizza il
Congresso del Giubileo della FIAP. In questi ambiti egli continua la sua
attività fotografica. Nel 1968 riceve la prestigiosa onorificenza EFIAP, nel
1975 quella di HonEFIAP, nel 1982 è il primo in
Italia ad ottenere quella di MFIAP.
Nel 1976 abbandona la presidenza del Fotoclub Padova dovendo seguire gli impegni sempre più
gravosi assunti nell’ambito della FIAF, nella quale copre diversi incarichi,
nonché quello della FIAP dove viene eletto vice-presidente dal 1979 al 1987.
Nel 1991 fonda il Gruppo Fotografico Antenore,
del quale nel 2012 lascia la presidenza. Dal 1993 al 2003 organizza diverse
edizioni della rassegna Fotopadova: una
manifestazione ricca di mostre, dibattiti, incontri, che si tiene presso la
Fiera di Padova, e all’interno della quale viene istituito il premio “Dietro
l’obiettivo una vita” e il riconoscimento al miglior fotolibro
dell’anno.
Millozzi, ancora oggi, collabora a vario
titolo con svariate istituzioni che si occupano di fotografia. La sua manifesta
ed energica passione non si ferma neanche di fronte all’ingestibile mondo della
rete: tutti gli iscritti alla sua mailing list
ricevono costantemente i dibattiti fotografici presenti nelle pagine web
italiane grazie ad un certosino raffronto di opinioni che egli mette assieme in
forma di rassegna. Siamo ad oggi al settimo anno e al numero ottavo!
I generi prevalentemente sviluppati da
Millozzi sono il ritratto, la figura ambientata, la composizione e il
reportage. Si deve precisare che (anche quando non vi è la consuetudine di
organizzare i propri scatti in portfolio) al nostro fotografo piace lavorare
con più immagini su specifici argomenti. Anche se la fotografia a colori gli ha
dato molte soddisfazioni – memorabilmente egli viene ricordato in diverse
recensioni per proiezioni di diapositive - , Millozzi predilige il bianco e
nero e, anche se come molti fotografi è passato al digitale, confessa
ripetutamente di aver molta nostalgia della camera oscura.
“La fotografia italiana dell’anteguerra -
sottolinea Turroni - vive soprattutto dell’apporto
dei dilettanti”[4], il
dopoguerra invece vede la rivalsa della fotografia amatoriale con la nascita di
gruppi fondamentali per una ricerca estetica di natura formale. Questi sodalizi
di appassionati dilettanti-fotografi sono l’unico fertile campo di discussione
sulla cultura figurativa in Italia. Le associazioni fotografiche “La Bussola” e
“La Gondola” si caratterizzano ben presto come interpreti della società
dell’epoca e come gruppi di avanguardia nella cultura visiva del primo
dopoguerra. Monti, uno dei membri fondatori del gruppo “La Gondola”, nel 1953
abbandona la carriera di dirigente per dedicarsi a tempo pieno alla fotografia
e si trasferisce a Milano dove ben presto viene nominato fotografo ufficiale
della X Triennale. “Dalle lontane stagioni amatoriali – una Venezia pigra di
toni, coi fotografi de La Gondola (anch’essi un po’ pigri) alla ricerca di
riflessi d’acqua, senza troppo rifletterci – Paolo Monti arriva alla scelta
professionale con vera consapevolezza”[5].
Per Millozzi l’iter è decisamente diverso:
agli inizi l’attività di fotografo rimane una passione più che un lavoro.
Questa dimensione in un certo senso limita la sua possibilità di raggiungere
subito maggior notorietà. La necessità e il desiderio di esprimere se stesso
attraverso l’arte della fotografia rappresenta una costante essenziale che
condiziona, forma e caratterizza il suo stile di vita. Il curriculum di
Millozzi è ricco di successi. Sono innumerevoli i premi ottenuti in concorsi
nazionali ed internazionali, e sono ancora più numerose le sue partecipazioni a
mostre personali e collettive. Non si può non tener conto della sua irrompente
presenza nel panorama italiano dei circoli. Egli per anni si dedica al neofita,
all’amatore e al collezionista, fornendo indispensabili informazioni sulle
tecniche, sulla storia del medium, consigliando l’approfondimento delle
conoscenze specialistiche e maturando l’interpretazione delle diverse
inclinazioni estetiche e tecniche che hanno consentito alla fotografia di
diventare una delle principali forme di comunicazione. In una breve e accurata
sintesi compilata nel 1968, e sottoposta ad un convegno sulla fotografia
tenutosi a Rovereto, Millozzi condensa fedelmente gli aspetti sostanziali di un
circolo fotografico come segue:
Il circolo fotografico,
almeno per chi ama veramente la fotografia ed intende approfondire le sue
cognizioni su di essa, e non soltanto tecniche, dev’essere
molto di più: dev’essere scuola, intesa nel suo più
vasto significato che va da “guida” a “insegnamento” fino a giungere al più
ristretto significato di “tendenza”. Orbene, se la fotografia deve intendersi
come fatto prevalentemente culturale dev’esserci da
parte di chi vi si avvicina un certo impegno che molti pensano si risolva
nell’apprendere esclusivamente il lato tecnico del problema. Il circolo
fotografico deve essere la strada per raggiungere la completa conoscenza del
mezzo fotografico e delle tecniche affini. E’ questo invece lo scopo che oserei
dire assolutamente marginale in un circolo fotografico; andando ad un estremo
anzi sarebbe da presupporre, in chi entra a far parte di una tale
organizzazione, la già sufficiente conoscenza di quanto occorre per non
commettere errori tecnici da compromettere la buona riuscita della foto scattata
ed essere così sicuro almeno di tale propria capacità. Inizia qui la fase più
importante per il fotoamatore: la fase formativa in cui, superate le maggiori
preoccupazioni tecniche, può dedicarsi ad affinare le proprie capacità
intellettuali ed intuitive riuscendo così ad esprimere per mezzo della immagine
fotografica la propria sensibilità, le proprie idee: in altre parole a
“comunicare”[6].
Quello che sorprende è la lucidità con cui
Millozzi insiste sul valore culturale dell’immagine e sulla qualità del proprio
contributo attraverso la storia. Questa delicata forma di ausilio verso un
cammino costruttivo di formazione è sempre stata una delle sue principali
priorità. Egli insiste sul fatto che le capacità di un fotografo sono
rafforzate dalla corretta conoscenza dei grandi maestri del Novecento (Edward Weston, Robert Capa, Henri Cartier-Bresson…). Per essere all’altezza di un fotografo
al passo con i tempi non deve esserci solo un innamoramento dello stile, ma è
di fondamentale importanza uno spiccato spirito autocritico che gli permetta di
eseguire immagini nuove con un linguaggio universale. Questa determinazione è
evidente in tutta l’opera di Millozzi, soprattutto nelle fotografie affini alle
immagini dei grandi maestri della fotografia artistica italiana del dopoguerra.
Sono squisitamente interessanti le vedute urbane di Venezia, esse rievocano i
tagli moderni di Giuseppe Cavalli e Federico Vender. Sono ancora più
accattivanti i ritratti femminili pieni di eleganza, manifesto delle competenze
del fotografo nel controllo della luce sulla pelle. Gli innumerevoli consensi
ottenuti dalla serie di fotografie dedicate ai bambini veneziani ci fanno
capire ancora di più l’importanza di un autore che troppo spesso viene
emarginato dalle storiografie italiane degli ultimi tempi. Soltanto la città di
Padova ha sempre trovato in Gustavo Millozzi una straordinaria figura di
coesione nel mare magnum della fotografia locale. Egli si è occupato della sua
fotografia e della fotografia di quanti al suo fianco, hanno percorso l’ardua
salita per far emergere lo stile fotografico italiano da un ambito nazionalista
e offrirle uno status internazionale. Trascurando, a volte, con compiaciuta
modestia, la valorizzazione dello straordinario archivio che lui stesso ha
pazientemente costruito, alla veneranda età di ottant’anni, per insistenza
degli amici e dei parenti, egli ha iniziato a riflettere sulla storia del
proprio apporto alla fotografia con una sistemazione organica dei suoi vintage
e della ricerca documentaria annessa. Un’operazione filologica del suo operato,
ancora in corso grazie alla preziosa cura della figlia Federica e del valido
contributo di Donatello Mancusi, si presenta non di facile attuazione. Lo
stesso Millozzi ama a lungo certe fotografie rispetto ad altre. Tra queste
fotografie, in alcuni casi, emerge anche una lettura della realtà quasi non “millozziana”. Mi riferisco in particolare a: Composizione n.45 (1966); Omaggio a Capogrossi
(1967), a Omaggio a Melotti
(1963). In queste tre belle fotografie si respira l’attenzione alla scuola
americana e all’immaginario artistico italiano che si trasfigura attraverso i
sali d’argento in una nuova idea di rappresentazione. Com’è possibile non
pensare ad un viaggio ideale nella cultura visiva della Farm Security Administration, come non lasciarsi trasportare nel respiro
ritmato dei segni a pettine dello spazio pittorico di Giuseppe Capogrossi, come non leggere le figure filamentose del
percorso scultoreo di Fausto Melotti che si
dispiegano alla ricerca di una bilanciata esistenza armonica. A metà tra informazione e incanto, in un mondo
sempre più governato da immagini e nuovi linguaggi espressivi, le fotografie di
Gustavo Millozzi colpiscono ancora oggi la psicologia della percezione e parlano
allo sguardo curioso e accorto, contribuendo al continuo arricchimento storico
dell’immagine fotografica in Italia e nel mondo.
Angelo
Maggi
1 Dall’introduzione
al volume di Dorfles, in Renzo Chini, Il linguaggio fotografico, Società
editrice internazionale, Milano 1968, p.3.
2 Chini, Il linguaggio … op.cit.,
p.131.
3 Giuseppe Turroni, “Gustavo
Millozzi giovane fotografo”, in Fotografia, anno XIV, n.2, febbario
1961, p.18.
4 Giuseppe Turroni, Nuova Fotografia Italiana, Schwarz, Milano 1959, p.9.
5 Cesare Colombo, “Le immagini. Paolo Monti”, in Foto Magazin,
maggio 1963, ora in Franco Bonilauri e Nino Squarza
6 Da un dattiloscritto di Gustavo Millozzi presentato
in data 28 gennaio 1968 presso la sede del Gruppo Fotoamatori di Rovereto.
Archivio privato Millozzi, folder 1, Padova.