1983

 

" Terre ’71 –’81 " di Gustavo Millozzi, presentato per la prima volta nella sua completezza al Congresso della Fiaf a Caorle nel maggio scorso, si inserisce con grande autorità sia nel tema di ricerca che si è sviluppato nella fotografia italiana degli ultimi decenni con manifestazioni non particolarmente frequenti, ma sempre molto significative, - la resa della materia -; sia nella polemica e forse più nella denuncia dei disastri ecologici che troppo spesso vengono provocati da un malinteso e colpevole modo di far avanzare il progresso industriale.. Anche in questo campo i fotografi italiani hanno avuto validissime presenze, anche se non troppo numerose.

Per recuperare il valore della materia, in pittura come in fotografia, è stato necessario rimuovere l’ostacolo ideologico di origine crociana, secondo cui in arte l’intuizione è tutt0, gli aspetti tecnici e pratici dell’opera non contano, e tanto meno contano i materiali di cui essa si compone. Il superamento di questo pregiudizio forse non ha proprio scatenato, ma certo ha consentito che l’attenzione degli artisti si rivolgesse alla materia non solo come elemento costitutivo non indifferente dell’opera d’arte, ma come fattore linguistico in sé e per sé autonomo e sufficiente, come fine e non solamente mezzo, se pur privilegiato.

Le "materie" di alcuni fotografi si sono perciò potute caricare di significati, riuscendo a trascendere il mero fatto compositivo, il puro gioco grafico; e l’astrazione, a cui un frammento di materia tende naturalmente, diventa concretezza, sostanza, contenuto.

E’ stato così per gli asfalti neri di Paolo Monti, per i suoi muri scrostati di Milano e di Venezia del dopoguerra; ed è così per queste "Terre" di Millozzi in cui si aggiunge la dimensione del colore, un fattore in più, anzi, per il modo in cui viene usato, un valore in più di particolare efficacia, narrativa ed espressiva insieme. Narrativa, perché nel mutare di questi colori nella ricchezza e varietà, monocorde, delle 35 immagini, rintracciamo la storia di una vita che si spegne, che si distrugge. Espressiva perché i colori caricano questa storia di un pathos doloroso e drammatico. Un colore dunque non semplicemente naturalistico, ma neppure proposto in termini solo simbolici, usato invece, forse nel nostro caso sarebbe meglio dire: scelto, immagine per immagine, per comunicare in maniera diretta l’azione delle sostanze chimiche che, anno dopo anno, corrompono e corrodono. Anche questo filone di ricerca - l’inquinamento e la sua denuncia – ha trovato da noi validi, ma non moltissimi, interpreti, e a Millozzi per queste "Terre" occorre riconoscere il merito di toccare, senza ricorrere a facili, superficiali e scontate registrazioni di dati evidenti ma generici, questo settore di piena attualità.

Se per concludere si volessero indicare le qualità "linguistiche" essenziali che fanno di queste fotografie un lavoro che si impone all’attenzione dei critici e dei fotografi, come del resto è avvenuto a Caorle, si potrebbe dire brevemente che la tecnica, pur presente in modo adeguato per conferire peso espressivo e funzione narrativa alla immagini, non prevarica mai tuttavia sull’elemento visivo (non si fa cioè del tecnicismo fine a sé stesso, come, in casi come questo, si sarebbe pur tentati di fare); gli elementi formali – resa della materia, rapporto fra i colori della stessa immagine, succedersi dei toni tra fotografia e fotografia, uso dei simboli (il topo, l’erba che si ritrae, la spaccatura nel terreno) - sono i segni stessi che si fanno significato; l’invenzione, o come oggi si preferisce dire: la creatività, non è attinta alle sfere dell’inverosimile e dell’assurdo, ma è il risultato di un incontro di componenti note, secondo un’originale (è qui che sta il momento creativo) visione.

Antonio Arcari