Il talento fotografico di Gustavo Millozzi è di ascendenza lontana e ha trovato via via la sua realizzazione senza incertezze, dimostrando di possedere una stoffa della quale infatti sono stati in molti ad accorgersi, visto che non gli sono mancati riconoscimenti ben meritati. L’avere per – giunta – respirato l’aria del veneziano "Circolo della Gondola", crogiuolo fra i più importanti in Italia di fotografi di rango, gli è servito, al pari di molti altri che oggi vanno anch’essi per la maggiore. Eppure debbo riconoscere, a mio disdoro, di essere rimasto piuttosto indietro nella conoscenza dell’evoluzione della sua fotografia, per via del lungo distacco prodottosi fra di noi per le solite ragioni di forza maggiore. E’ dunque con doppia e lietissima sorpresa che, di fronte alla serie dei suoi Colorprint titolata "Terre 1971-1981" che ancora non conoscevo, ho ritrovato un Millozzi che aveva imboccato territori decisamente distinti da quelli essenzialmente narrativi sui quali aveva maturato le sue esperienze, a cui deve la sua prima affermazione. Parlo di quei terreni di ricerca nei quali il fotografo che vuole realizzare immagini che siano sopra ogni altra cosa prodotti della sua coscienza creativa, finisce per trovarsi sempre solo con se stesso, posizione tipica dell’artista autentico.

La fotografia del nostro tempo, che si è arricchita in questi ultimi decenni in fatto di impegni di ricerca lungo filoni disparatissimi, in tutti trovando motivi di forte estrosità creativa e interpretativa, ha abbandonato ormai da molto tempo le preoccupazioni estetizzanti, lasciando sempre di più spazio ad un bisogno viscerale di trovare nei segni, sia dei manufatti, sia della pura astrazione del pensiero sotto specie di intuizioni, un punto di leva per suscitare emozioni di nuovo tipo, fortemente più aderenti alle esigenze del nostro tempo sillogistico. Si sa che il concetto di estetica è radicalmente cambiato in ogni tipo di manifestazione d’arte; trova anzi il suo fulcro nei meccanismi percettivi dei valori nuovi che attendono, per rivelarsi, solo l’uomo giusto nel momento giusto. Molti fotografi (e di grande statura) si sono cimentati nella ricerca di nuovi terreni o di translati ecologici; Millozzi con le sue "Terre 1971-1981", si è inserito nel filone con l’autorità di una maestria e di una sensibilità che si impongono con autorità di testo, perché superano di slancio la fase tecnocromatica (lui che è sempre stato un bianconerista convinto) per piegare decisamente il colore - che tratta con ineguagliabile dolcezza – alla funzione di immedesimazione di tutta la sua coscienza fotografica della materia, onde leggervi, non i puri guasti fatalistici prodotti dalla stolta colpa umana, ma la natura sofferente.

Proprio da questa sofferenza Millozzi trae motivo per trasformarla (quasi per un gioco faustiano) in pura bellezza, e per innestarvi sentimenti vibranti di commozione, di struggimento, di nostalgia, senza tuttavia nulla nasconderci di quei guasti, di fronte ai quali nessuno (e tantomeno il fotografo che - voglia o no – e sempre un "reporter") deve permettervi di barare.

Le terre e le acque di Millozzi non si possono descrivere. Bisogna vederle; guardarle e riguardarle, queste zolle di natura che nelle sue mani si fanno brani preziosi di partecipazione acuta e minuziosa e amorevole alla vita precaria, quasi dolorante, di qualche stelo, al profondo trascolorare di acque o di masse fatte ombra di se stesse, di efflorescenze e di degradazioni viste come rabeschi od opalescenze che si ammantano, all’occhio del fotografo, di eleganze sobrie di gusto raffinato, fino al punto di creare, mediante la presenza di un topino ucciso dai veleni, una metafora agghiacciante. In casi come questi il critico dovrebbe sempre guardarsi dal farsi prendere la mano dalle proprie accensioni, perché il suo compito è di additare i valori oggettivi, lasciando ai lettori i sentimenti e le interpretazioni. Ma mi piace qui assicurare l’amico Millozzi, che la mia commozione davanti alle sue "Terre 1971-1981" è stata fin dalla prima visione, e tale resta nel ricordo, sincerissima. Raramente mi era accaduto qualcosa del genere.

Torino, 6 Giugno 1983

Rinaldo Prieri